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Ospedale psichiatrico, 1865 - 1978

Le prime disposizioni legislative sui manicomi promulgate dallo Stato unitario furono inserite nella legge Comunale e Provinciale n° 2248 del 20 marzo del 1865. Si attribuivano alle Province le spese per la costruzione e l'ammodernamento degli istituti di ricovero e il mantenimento obbligatorio dei mentecatti poveri. Molti dei manicomi italiani derivavano da antiche istituzioni confraternali ed erano regolati dalla legge del 3 marzo 1862 sulle Opere pie e di beneficenza. Questa non disegnava una chiara distribuzione delle competenze tra beneficenza pubblica e privata, attribuendo a quest'ultima quanti più compiti e spese possibili.
Più che trentennale fu il percorso per arrivare alla prima legge manicomiale e numerosi progetti furono discussi durante tutta la seconda metà del XIX secolo.
Tutte le leggi in campo sanitario, in particolare quelle del 20 novembre 1859 e del 20 marzo 1865, affidavano la tutela della salute pubblica alle varie articolazioni del ministero dell'Interno, riconoscendo un ruolo puramente consultivo ai medici all'interno degli organismi deputati al controllo della salute della popolazione (Consiglio superiore, Consigli provinciali e circondariali d'igiene).
Fu con l'istituzione della "Direzione generale della Sanità pubblica" del 3 luglio 1887 istituita presso il Ministero dell'Interno e affidata al medico Luigi Pagliani, che si cominciò a dare autonomia all'amministrazione sanitaria.
La legge sanitaria Crispi del 22 dicembre 1888 ordinò organicamente queste nuove disposizioni. La professione medica si articolò in nuove forme e definì i suoi contenuti in relazione alla sua funzione nello Stato.
Veniva istituita la figura dell'ufficiale sanitario, attento soprattutto al controllo della situazione sanitaria nelle campagne. L'esercizio della medicina, integrandosi alla funzione generale di governo della popolazione, assumeva così una funzione "positivista", rivolta non soltanto alla cura delle malattie, ma alla promozione della salute e del benessere in modo istituzionalmente non disgiunto dal controllo sociale.
Vita, costumi, carattere, intelligenza dei singoli e delle diverse razze si definivano così in relazione a un modello "positivo", all'interno di uno spazio determinato dalla dicotomia "normalità - anormalità", che largo ruolo ebbe nei contesti manicomiali europei.
Se si esclude la breve parentesi del governo Giolitti, e di un suo progetto che anticipava le linee di quella che sarebbe stata la legge del 1904, tutto il decennio di fine secolo fu caratterizzato da governi che proposero dei disegni di legge non innovativi, come quello Di Rudini' del '93 e quello Pelloux del 1899.
Entrambi i progetti costituivano una minaccia nei confronti del ruolo che gli psichiatri, e più in generale i medici, si erano visti riconoscere dalla legge sanitaria Crispi, del 1888.
L'aumento esponenziale del numero dei ricoverati fu l'elemento concreto che vinse le resistenze che avevano bloccato ogni progetto di legge in materia manicomiale presentato in Parlamento. Nel 1874, la popolazione manicomiale italiana era di poco superiore ai 10000 internati, mentre all'inizio del nuovo secolo erano più di 40.000. Altrettanto determinante fu, sul piano dell'opportunità politica, la vasta impressione nell'opinione pubblica degli scandali manicomiali esplosi a cavallo del secolo.

Il 14 febbraio 1904, dopo anni di discussione in parlamento e nell'ambito della "Società di Freniatria", venne finalmente emanata la legge n. 36, 'Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati'. La legge, sanciva il rapporto tra società e istituzione psichiatrica in termini di separazione e esclusione. Le priorità al cui soddisfacimento mirava erano già chiaramente annunciate dal suo titolo che indicava come l'obiettivo principale fosse quello della custodia. Si disponeva infatti che avrebbero dovuto "essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé e agli altri o riescano di pubblico scandalo e non siano e non possano essere convenientemente custodite e curate fuorché nei manicomi". Sotto questa denominazione venivano compresi 'tutti quegli istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere'.
Il direttore di un manicomio poteva sotto la sua responsabilità autorizzare la cura di un alienato in una casa privata, ma doveva darne immediatamente notizia al procuratore del re e all'autorità di pubblica sicurezza. (art. 1)
L'ammissione degli alienati nei manicomi era chiesta dai parenti o da chiunque altro nell'interesse degli infermi e della società. (art. 2)
Il ricovero era autorizzato, in via provvisoria, dal pretore sulla presentazione di un certificato medico e di un atto di notorietà, ed in via definitiva dal tribunale sull'istanza del pubblico ministero in base alla relazione del direttore del manicomio e dopo un periodo di osservazione che non poteva eccedere in complesso un mese. L'autorità locale di pubblica sicurezza poteva, in caso di urgenza, ordinare il ricovero in via provvisoria in base a certificato medico. Ogni manicomio doveva avere un locale distinto e separato per accogliere i ricoverati in via provvisoria.
Il licenziamento dal manicomio degli alienati guariti, era autorizzato con decreto del presidente del tribunale sulla richiesta o del direttore del manicomio. Il direttore del manicomio poteva ordinare la dimissione in via di prova dell'alienato che avesse raggiunto un notevole grado di miglioramento. (art. 3)
Il direttore aveva piena autorità sul servizio interno sanitario e l'alta sorveglianza su quello economico per tutto ciò che concerneva il trattamento dei malati, ed era responsabile dell'andamento del manicomio e della esecuzione della legge. Interveniva alle sedute della deputazione provinciale o delle commissioni e consigli amministrativi, nelle si trattavano materie tecnico-sanitarie, con voto consultivo. (art. 4)
Nulla era innovato circa l'obbligo delle province di provvedere alle spese per il mantenimento degli alienati poveri. La spesa per il trasporto di questi al manicomio era a carico dei comuni nei quali essi si trovavano nel momento in cui l'alienazione mentale era constatata; le spese di qualunque genere per gli alienati esteri erano a carico dello Stato, salvo gli effetti delle relative convenzioni internazionali; le spese per gli alienati condannati o giudicabili, ricoverati sia in manicomi giudiziari erano pure a carico dello Stato. (art. 6)
La vigilanza sui manicomi pubblici e privati e sugli alienati era affidata al ministro dell'Interno ed ai prefetti ed era esercitata da una commissione composta dal prefetto dal medico provinciale e da un medico alienista nominato dal ministro dell'interno. (art. 8)

I giuristi considerarono a lungo la legge come valida per la tutela della società e della stessa personalità giuridica degli alienati. L'opinione dei medici psichiatri tendeva invece a criticare nella legge quattro punti essenziali:
In primo luogo la protezione della società dalla pericolosità dei malati mentali, obiettivo che pervadeva molte delle disposizioni, e che gli alienisti consideravano eccessivamente enfatizzato, dato che solo una piccola parte dei malati mentali era effettivamente pericolosa.
Era inoltre considerato umiliante dalla categoria degli psichiatri l'esautorazione del medico alienista dalle proprie responsabilità nel ricovero e dimissione del paziente, responsabilità che era riservata al pretore o all'autorità di pubblica sicurezza.
In terzo luogo, l'opinione diffusa che la malattia mentale fosse difficilmente curabile e guaribile, si esprimeva nella norma che stabiliva un periodo di soli quindici giorni, prorogabili a trenta, entro il quale decidere tra dimissione e ricovero "definitivo". Nel 1926 poi, si aggiunse la comunicazione al Casellario Giudiziario. Anche il "licenziamento", dopo la proposta di dimissione per guarigione, era decretata dal Tribunale, riunito in Consiglio. Queste disposizioni così restrittive furono poi, nella pratica, applicate dagli psichiatri, d'intesa con i magistrati, con una relativa umanità.
Infine, ma non ultimo, se non altro per le sue conseguenze, era avversato il criterio della massima economia nelle spese da parte delle Amministrazioni Provinciali. Queste erano obbligate a provvedere alla custodia e cura degli ammalati pericolosi o di pubblico scandalo, e non di tutti i malati mentali. Non era disposto alcun obbligo di provvedere a servizi di Igiene e profilassi mentale o a assistenza extra-ospedaliera né, d'altra parte, c'era alcun obbligo di possedere o gestire in proprio alcun Ospedale Psichiatrico. La legge lasciava ai Consigli Provinciali ogni possibilità di servirsi di manicomi privati, anche fuori del territorio della Provincia, e questi scelsero molto spesso questi ultimi per il ricovero dei malati poveri, col solo criterio della massima economia delle spese.

Il nuovo e definitivo regolamento del 1909 accolse, solo in piccola parte le richieste della Società Freniatrica. Esso incentivava il ricovero dei folli cronici in asili speciali, le dimissioni sperimentali, la cura familiare. Si accettava così il principio della diversificazione del modello dell'assistenza psichiatrica, come ormai chiesto da molti alienisti.
Durante la prima guerra mondiale, fu pubblicato il decreto luogotenenziale n° 707 del 25 maggio 1916, che stabiliva che "per assicurare la maggiore esattezza del giudizio psichiatrico dei militari presunti alienati", per la durata della guerra, il periodo massimo di osservazione previsto era protratto a tre mesi.
Gli scandali manicomiali dapprima, e poi il varo della legge Giolitti, avevano esaurito la battaglia politica trentennale della Società Freniatrica e furono seguiti dal ripiegamento degli psichiatri su di una prassi consolidata. Alla realtà della reclusione manicomiale per motivi d'ordine pubblico corrispose, l'affermazione degli aspetti più riduzionistici dell'organicismo, l'equivalenza delle malattie mentali con le malattie nervose, un appiattimento della psichiatria, a favore di una pratica professionale strettamente definita. Durante tutto il quindicennio seguente non ci furono ulteriori richieste di riforme o cambiamenti.
Le gravi conseguenze in termini emarginazione delle disposizioni in tema di ricovero, derivarono anche dal fatto che il Codice di procedura penale previde l'iscrizione al Casellario giudiziale dei ricoveri, anche provvisori (art. 604), equiparando di fatto la condizione di ricoverato a quella di carcerato. Questo punto venne addirittura confermato, nel dopoguerra, dalla legge 14 marzo 1952, n° 158, che pure escludeva dall'iscrizione al Casellario giudiziale numerosi reati di modesta entità. .
Fu il direttore dell'Ospedale psichiatrico romano, F. Bonfiglio, nella sua relazione al 23° Congresso della Società Italiana di Psichiatria, tenutosi a Roma nel 1946, ad affrontare il tema della necessità di una riforma. Egli chiese che fosse finalmente promulgata una legislazione "essenzialmente sanitaria" e non più "giudiziaria". Ne nacque una Commissione di psichiatri che elaborò un progetto di nuova legislazione, che fu poi bloccato.
Un secondo progetto, Bonfiglio-Battaglini-Ceravolo, fu presentato nel 1951 alla Camera dei Deputati, ma la prima legislatura della Repubblica si chiuse nel 1953, senza che il Parlamento trovasse il tempo e la volontà per prenderlo in considerazione
Nei seguenti dieci anni, l'industrializzazione del paese ebbe grande sviluppo, si diffusero consumi nuovi e un livello di vita più confortevole: queste nuove condizioni, che per la prima volta elevavano la maggior parte della società italiana al disopra del livello di pura sopravvivenza, produssero una potente spinta al cambiamento e aprirono nuovi conflitti tra le crescenti richieste di protagonismo e democratizzazione, e un sistema sociale arretrato e chiuso. Si produssero tensioni crescenti, anche in campo scientifico e culturale, e queste investirono in pieno la psichiatria.
La critica da parte degli psichiatri al concetto tradizionale di malattia mentale si era sviluppata dagli anni Trenta con gli studi di Sullivan sul disturbo mentale come problema interpersonale, la psicologia dei gruppi, e con i contributi di Bateson e della scuola di Palo Alto, ecc. Tra la fine degli anni Cinquanta e i primi '60 Donald Laing e David Cooper proponevano in Gran Bretagna nuove interpretazioni e cure, decisamente anticonformiste, della condizione schizofrenica. Con il nome generico di "antipsichiatria", venivano identificate nel decennio '60-'70 tutta una serie di tendenze ed indirizzi assai diversificati, che ponevano in discussione i dogmi della "scienza" psichiatrica tradizionale. In Italia, gli sforzi di rinnovamento della psichiatria, ebbero origine dalle esperienze positive di Perugia con Manuali, Nocera Inferiore con Sergio Piro e Gorizia e Trieste per opera di Franco Basaglia, che divenne il maggior esponente ed il simbolo della lotta anti-istituzionale, riscuotendo una notevolissima popolarità anche all'estero. Nascevano così, dalla messa in crisi dei manicomi e dall'esperienza britannica della "comunità terapeutica", una serie di tentativi di dare alla follia quei diritti che le istituzioni psichiatriche pubbliche negavano.
Furono anni in cui si accavallarono congressi e progetti delle varie Società, nelle diverse sedi scientifiche e politiche, che portarono il 18 marzo del 1968, all'approvazione della legge 431, detta legge-stralcio, perché parte di un progetto più vasto presentata dal ministro della Sanità, L. Mariotti. La legge era intitolata "Provvidenze per l'assistenza psichiatrica" e tendeva alla equiparazione degli ospedali psichiatrici a quelli generali: erano previste da due a cinque divisioni, ciascuna con al massimo 125 letti. Il personale doveva essere costituito da un direttore psichiatra, un igienista, uno psicologo e, per ogni divisione, un primario, un aiuto e almeno un assistente. Il numero degli infermieri avrebbe dovuto mantenere un rapporto di uno ogni tre posti letto, e gli assistenti sociali e sanitari, di uno ogni cento. Per l'assistenza extra-ospedaliera, venivano istituiti i Centri di Igiene Mentale, sia autonomi che dipendenti dal direttore dell'ospedale psichiatrico, ma con medici, infermieri e assistenti sociali di un organico autonomo. Il punto fondamentale era costituito dall'articolo 4, che contemplava l'ammissione volontaria su richiesta del malato e su autorizzazione del medico di guardia: la dimissione doveva essere comunicata alla autorità di Pubblica sicurezza solo per i ricoveri obbligatori e non più per i ricoveri volontari, o per quelli trasformati in ricovero volontari.
Il 13 maggio del 1978, fu approvata la legge 180, poi inclusa nella L. 833 dello stesso anno, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. Questa legge, conosciuta anche come 'legge Basaglia' per il ruolo che egli ha avuto nella denuncia del sistema manicomiale italiano, ha introdotto nel nostro sistema politico, culturale e scientifico, degli elementi profondamente innovativi:
1. Decreta il superamento degli ospedali psichiatrici;
2. Abroga la legge del 1904 e il regolamento del 1909;
3. Inserisce il malato di mente e l'operatore psichiatrico nel pieno contesto della medicina generale, in unità intra ed extra-ospedaliere;
4. Fissa nuove regole per il ricovero obbligatorio (che non ha più alcun riferimento alla pericolosità), con la possibilità che sia il paziente che i parenti possano chiedere la revoca del provvedimento;
5. Prevede l'istituzione dei servizi di Diagnosi e Cura negli ospedali generali con un numero di letti non superiore a 15;
6. Il territorio viene riconosciuto come sede dell'intervento terapeutico e riabilitativo del paziente;
7. I servizi psichiatrici devono essere ristrutturati su base dipartimentale (Centri di Igiene Mentale; strutture residenziali; comunità protette; case-famiglia; case-alloggio; ecc.)

La legge 180 fu nei primi anni poco e male applicata, le difficoltà erano effettivamente molte, contro di essa agivano forti interessi consolidati. Fu necessario attendere sedici anni perché il Ministero della sanità emanasse nel 1994 il primo Progetto obiettivo 'Tutela della salute mentale 94-96' che prescriveva la chiusura degli ospedali psichiatrici entro la fine del 1996, suggellando così, almeno in linea di principio, la fine dell'istituzione manicomiale. La legge quadro n° 104 del 1992 prevedeva la costituzione delle comunità-alloggio, delle case-famiglia, ecc..
Infine, la legge n° 724 (allegato alla Legge finanziaria del 23 dicembre 1994) disponeva la chiusura definitiva del 'residuo' degli ospedali psichiatrici entro il dicembre del 1996, termine poi prorogato al 31 gennaio del '97, e, successivamente al 31 dicembre del '98.


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Bibliografia:
A. IARIA - C.E. SIMONETTO, "Aspetti della storia del S. Maria della Pietà dall'unità al '900: leggi e regolamenti", in L'Ospedale S. Maria della Pietà di Roma, vol.III, edizioni Dedalo, 2003, 13-32

Redazione e revisione:
Kolega Alexandra, rielaborazione


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