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Abbazia di Santa Maria della Vangadizza

Sede: Badia Polesine (Rovigo)
Date di esistenza: sec. X seconda metà - 1810 mag. 13

Intestazioni:
Abbazia di Santa Maria della Vangadizza, Badia Polesine (Rovigo), sec. X seconda metà - 1810, SIUSA

L'Abbazia benedettina, poi camaldolese, di Santa Maria della Vangadizza fu fondata nella seconda metà del X secolo.
Al 961 risale un atto di donazione dei sovrani Berengario II e Adalberto a favore del "venerabilem Martinum wangadiciensis abatem" che attesta l'esistenza di un monastero situato in località "Vangadicia".
Tuttavia il monastero beneficato da Berengario II e Adalberto non corrisponde esattamente all’insediamento monastico che nel corso del Mille si trasformò nella potente Abbazia di Santa Maria della Vangadizza, come si deduce dalla diversa localizzazione delle due comunità. La località descritta nel privilegio del 961 è stata identificata con una zona situata al confine tra il territorio veronese e Salvaterra (Rovigo), all’incile del Caobuso (diversivo dell’Adigetto), che in seguito sarà denominata Francavilla inferiore, mentre l’Abbazia della Vangadizza sorse in località Petra, dove, sin dalla metà del X secolo, esistevano una chiesa intitolata a Maria, con annessa scola sacerdotum, e una fortificazione gestita da vicinia, corrispondente al primo nucleo abitato di Badia Polesine.
Evidentemente il toponimo "Vangadicia", di cui è rimasta memoria nella denominazione dell'Abbazia e che significa terra da dissodare con la vanga, nei documenti dei secoli X-XI designava un territorio ampio, comprendente Badia Polesine, inclusa l'area monasteriale, e parte delle valli veronesi.
Tra il 955 e il 993 la chiesetta dell’antica Petra, inserita nel borgo, si trasformò rapidamente, prima in basilica, essendo officiata dal clero plurimo, e poi in Monastero, con la costituzione di un clero regolare per volontà di Ugo di Tuscia, considerato il fondatore ideale dell’Abbazia. Il 29 maggio 993 donò all’abate Martino la basilica di Santa Maria sita “in castro de Adice Maiore”, con il complesso di diritti e proprietà che ad essa facevano capo, affinché vi costituisse un monastero benedettino, che divenne appunto l’Abbazia di Santa Maria della Vangadizza.
Ugo di Tuscia, marchese di Toscana e consigliere degli imperatori Sassoni, oltre a fondare la comunità benedettina di Badia Polesine, subentrata alla preesistente comunità di chierici secolari (scola sacerdotum), la dotò di cospicue proprietà (con successive donazioni del 27 dicembre 996 e il 24 novembre 997) e ottenne per essa la protezione di papa Silvestro II (940-950 circa – 1003), garantendone la sopravvivenza e la continuità.
L'autorità pontificia riconobbe, sin dalle origini, al Monastero e alle chiese dipendenti dalla sua giurisdizione lo status di "nullius diocesis", ossia di indipendenza dalla potestà vescovile, mantenuto fino alla soppressione, come documentano le conferme dei successori di Silvestro II (di Callisto II del 6 marzo 1123, di Alessandro III del 7 maggio 1177, Lucio III, Celestino III, e di Onorio III del 27 novembre 1217).
La comunità dei monaci benedettini ottenne anche la protezione dell’imperatore Federico I il 24 luglio 1177, privilegiato confermato dal successore Federico II il 28 marzo 1219.
In breve tempo, grazie a consistenti donazioni, l’Abbazia acquisì possedimenti che si estendevano su cinque province: Rovigo (Arquà, Badia, Bagnolo Po, Barbuglio, Baruchella, Borsea, Castelguglielmo, Cavazzana, Colombano, Crocetta, Fratta Polesine, Gognano, Presciane, Ramodipalo, Rasa, Runzi, Saguedo, Salvaterra, San Martino di Venezze, Villafora, Villamarzana, Zelo), Verona (Bardolino, Castelbaldo, Minerbe, Illasi, Legnago, San Salvar in Corte Regia a Verona, San Michele Extra, Villa Bartolomea, Villa d’Adige), Padova (Bosco di Rubano, Este, Megliadino, Merlara, Monselice, Montagnana, Saletto, Urbana, Valle San Giorgio, Vanzo, Vighizzolo, Villa Estense), Vicenza (Grisignano di Zocco) e Bologna (Poggio Renatico, Rubizzano, Corticella e Bologna città).
Determinante per le sorti dell'Abbazia fu la sua prossimità all'Adige, in una posizione strategica, già nel X secolo, per il controllo dei traffici commerciali fluviali verso il Brennero (a nord) e verso l'Adriatico (a sud), che, da un lato, garantì ai monaci cospicue entrate, derivanti dalla riscossione della gabella dai natanti che transitavano lungo il fiume (il Monastero esercitò, i diritti di riscossione del "toloneo", ereditati della scola sacerdotum di Petra, fino al 1298) e, dall'altro, determinò il coinvolgimento diretto dell’Abbazia nelle lotte tra i potenti vicini interessati a estendere la propria egemonia e interessi commerciali sul territorio. Oltre a essere situata in una posizione chiave di crocevia idraulica, l'Abbazia possedeva gli unici ponti di collegamento sull'Adige tra il territorio polesano e padovano (il Pizzon e San Martino di Venezze) e le fortificazioni di Montagnana, Merlara, Lendinara e il Manegio.
Nei secoli XI-XIII l’abbazia ebbe un rapporto privilegiato con la famiglia degli Estensi, il cui capostipite, Alberto Azzo II (1009 - 1097) scelse, non a caso, di essere sepolto nella chiesa abbaziale, accanto alla prima consorte, Cunegonda.
Il 30 ottobre 1298 l’abate Guidone stipulò con Padova un accordo che prevedeva la cessione al Comune dei diritti di giurisdizione politica esercitati fino a quel momento dall'Abbazia, tra cui quelli di riscuotere il toloneo e di nominare il podestà di Badia, in cambio di protezione e di possedimenti (Bosco di Rubano).
L’egemonia di Padova sul Monastero, proseguì per tutto il Trecento, pur se in termini meno oppressivi e alternata all’influenza estense (1317 - 1390).
Nel XV secolo si affaccia come elemento di novità nel quadro politico sopra delineato il protagonismo della Repubblica di Venezia, che nel 1509 annette Badia Polesine, con tutto il Polesine, ai propri domini di terraferma.
Per quanto riguarda invece l’organizzazione religiosa del Monastero, due date risultano centrali: il 1213 anno della riforma camaldolese, e il 1435, anno del passaggio definitivo al regime della commenda.
Prima del 1213 l’abbazia, che aveva dignità di matrice, dipendeva esclusivamente dalla Santa Sede.
L’abate veniva eletto dal Capitolo dei monaci e confermato e dal Pontefice, faceva uso delle insegne vescovili (mitra e pastorale) e nominava i sacerdoti delle parrocchie e i priori del conventi dipendenti dalla giurisdizione vangadiciense.
La prima comunità monastica seguiva la regola di San Benedetto secondo la riforma di Benedetto d’Aniane, basata sul primato della preghiera, secondo il modello introdotto dalla Congregazione cluniacense.
Nel 1213 Innocenzo III impose ai Camaldolesi, ordine monastico fortemente legato al pontefice, di riformare il Monastero della Vangadizza, al fine di contrastarne la decadenza morale e spirituale. Solo il 27 giugno 1217 però i benedettini furono effettivamente sostituiti da monaci della Congregazione romualdina.
Primo abate vangadiciense dell’ordine camaldolese fu il monaco Sansone, potente e “contrastato” contestato personaggio che dal 1213 al 1217 cumulò le cariche di abate di tre congregazioni camaldolesi: Santa Maria della Vangadizza, Santa Maria di Avesa (Verona), San Vito di Vicenza.
I camaldolesi introdussero nell’Abbazia il modello di vita monastica proprio delle rinnovate congregazioni camaldolesi fondate a partire dal XII secolo, che coniugava vita contemplativa e dimensione comunitaria.
Con la riforma camaldolese si ridusse l’autonomia dell’abate, posto alle dipendenze del generale dell’Ordine di Camaldoli, oltre che del Pontefice, il quale mantenne il diritto di conferma e consacrazione dell’abate.
Inoltre, gli statuti dell’Ordine garantivano ai monaci la facoltà di appellarsi al priore generale di Camaldoli e, in ultima istanza alla Santa Sede, in caso di conflitti con l’abate, ponendo un altro limite al potere decisionale di quest’ultimo.
Dopo la nomina papale di un abate dell’ordine camaldolese, Antonio II del Ferro (1385-1435), il 1435 segna per l’Abbazia della Vangadizza l’inizio ufficiale del regime commendatizio, che attribuiva al pontefice il diritto di nominare l'abate, scelto tra i chierici secolari, anziché dal Capitolo tra i monaci dell’ordine.
Con l’introduzione dell’istituto della commenda venivano in pratica a operare nell’Abbazia due autorità: l’abate commendatario e l’abate claustrale.
L’abate commendatario esercitava piena giurisdizione ecclesiastica sulla circoscrizione territoriale della diocesi vangadiciense, presiedeva il capitolo dei canonici, aveva residenza, almeno nominale, nell’abbazia e ne amministrava i beni. In caso di assenza era rappresentato da un vicario generale da lui nominato, scelto per lo più tra i parroci delle chiese dipendenti, in contrasto con la tradizionale primazia dei monaci.
L’abate claustrale, monaco regolare, portava il titolo di priore, era nominato dal capitolo generale dell’ordine camaldolese senza ingerenze da parte del commendatario, godeva di autonomia limitata alla comunità monastica ed era tenuto a far rispettare l’organizzazione interna.
Con il passare del tempo la commenda divenne equiparabile al beneficio abbaziale. Questo comportò, data la cospicua rendita dei beni abbaziali, l’affermazione di pratiche nepotistiche in relazione alla nomina degli abati commendatari, per lo più provenienti da poche, potenti famiglie veneziane: Loredan (i cui membri detennero la commenda dal 1484 al 1608), Priuli, Corner, Dolfin.
Per oltre un secolo gli abati commendatari mantennero una condotta adeguata all’importanza del loro ruolo, pagando la colletta di soggezione al generale dell’Ordine, risiedendo nel Monastero, officiando con i monaci la chiesa abbaziale e deliberando in Capitolo circa le chiese soggette. Altri, come Ambrogio Bernardi (? - 1535), curarono l'ampliamento e l'abbellimento dei locali e la bonifica dei terreni di proprietà monastica, approfittando del maggior benessere economico determinato dal passaggio del Polesine sotto il dominio del governo della Serenissima.
A partire dal Seicento però i monaci videro peggiorare notevolmente la loro situazione in quanto successero nella commenda vescovi e cardinali titolari di diocesi lontane, avidi e dissoluti, i quali trascurarono l’amministrazione dell’Abbazia e fecero un uso clientelare del patrimonio fondiario monastico, ceduto a famiglie veneziane e di terraferma.
La commenda segna inoltre una fase caratterizzata da controversie tra priori claustrali e religiosi secolari titolari delle parrocchie dipendenti, per l'officiatura della chiesa abbaziale, e tra abati, sia commendatari sia regolari, e i vescovi diocesani di Adria e Padova che cercarono di far valere il loro diritto di visita sulle parrocchie soggette alla Vangadizza sancito dai decreti del Concilio di Trento.
Dal 1728 al 1755 ebbe la commenda Angelo Maria Querini (Venezia, 30 marzo 1680 - Brescia, 6 gennaio 1755), cardinale, erudito e bibliotecario, il quale eresse presso il Monastero un seminario (inaugurato nel 1747) destinato all'educazione dei chierici ma aperto anche ai laici.
Con decreto dell’11 aprile 1789 il Governo Veneto, in base a disposizioni del 1784 che prevedevano la soppressione delle abbazie commendate alla morte del commendatario e a seguito della morte dell’abate Giovanni Correr, ordinò la soppressione della Vangadizza, i cui beni vennero incamerati al Demanio con successivo decreto del 21 marzo 1790. Con decreto del 7 settembre 1792 venne soppressa la diocesi vangadiciense di cui facevano parte numerose parrocchie, annesse alle diocesi di Adria (Badia Polesine, Barbuglio, Baruchella, Borsea, Bosco di Rubano, Cavazzana, Crocetta, Fratta Polesine, Rasa, Saguedo, Salvaterra, San Martino di Venezze, Villafora), Padova (Bosco di Rubano) e Verona (San Salvar in Corte Regia). Tuttavia dal punto di vista ecclesiastico, come comunità di monaci, la Vangadizza sopravvisse ancora alcuni anni. Il decreto del 1792 confermò la dignità di matrice della chiesa abbaziale mentre le autorità venete, nel 1793, accordarono ai camaldolesi della Congregazione San Michele di Murano (diventata nel frattempo il vero centro propulsivo della congregazione camaldolese), l’affitto dei locali per otto anni. Nel 1797 con la caduta della Repubblica di Venezia l’Abbazia venne soppressa nuovamente dai francesi, incamerata per diritto di conquistata territoriale signoria e venduta (5 novembre 1797) come bene nazionale al conte Federico Guglielmo d’Espagnac.
Dopo il trattato di Campoformio (17 ottobre 1797), i governatori austriaci dichiararono nulli i contratti di vendita sottoscritti con le autorità francesi. I monaci videro riconosciuto il loro affitto, che venne prorogato di ulteriori otto anni (fino al 1808), e per il Conte d’Espagnac si aprì una lunga battaglia legale con il Demanio per il riconoscimento della legittimità dell’acquisto. Il pieno possesso della proprietà viene riconosciuto a Federico Guglielmo d’Espagnac il 10 agosto 1808.
A seguito del decreto napoleonico generale di soppressione degli ordini religiosi del 25 aprile 1810, il Governo Italico dispose la chiusura definitiva dell’Abbazia, con decreto locale del 13 maggio 1810, con atto di soppressione del 13 maggio. I monaci lasciarono definitivamente Badia Polesine il 22 maggio 1810.


Condizione giuridica:
enti di culto

Tipologia del soggetto produttore:
ente e associazione della chiesa cattolica

Complessi archivistici prodotti:
Abbazia di Santa Maria della Vangadizza di Badia Polesine (fondo)
Abbazia di Santa Maria della Vangadizza e famiglia d'Espagnac (complesso di fondi / superfondo)
d'Espagnac, famiglia (fondo)


Redazione e revisione:
Mariani Ilaria, 2020/04/07, prima redazione
Rocco Patrizia, 2020/07/07, supervisione della scheda


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